Qualche mese fa, un giovane si è tolto la vita, in America.
Aveva 17 anni, andava al liceo. E fino all'ultimo non aveva motivi per un gesto simile. Poi è stato contattato da una coetanea, che gli ha mandato qualche foto intima. E gli ha chiesto di fare lo stesso. E lui l'ha fatto.
Solo che la coetanea non era quello che diceva di essere. Era un'organizzazione di ricattatori che gli ha estorto i pochi soldi che aveva messo da parte per l'università, altrimenti avrebbero pubblicato le sue foto. E poi, a furia di minacce, l'ha spinto al suicidio.
L'FBI dice che episodi come questo sono sempre più frequenti, che raramente vengono denunciati e che le vittime tipicamente sono giovani, a nostro parere forse un po' troppo abituati a contatti "social" con interlocutori mai visti in carne e ossa.
Chiaramente qui la tragedia è nella morte del giovane. Ma noi, come informatici, ci chiediamo se questo sempre più frequente uso delinquente della tecnologia possa essere limitato o evitato.
È chiaro che i colpevoli in questo caso sono i ricattatori. Pensare che in qualche modo internet in generale abbia una responsabilità sarebbe come dire che le strade sono in parte responsabili delle rapine, perché i rapinatori le usano per compiere il misfatto.
Ma la cultura del "su internet l'anonimato è sacro" insieme con una certa superficialità dei social sono sicuramente parte del problema.
Ci chiediamo: perché è così facile fare account falsi sui social?
E perché moltissimi account Twitter non dicono apertamente a chi appartengono, ma si nascondono dietro acronimi oscuri?
E poi, com'è che il 5% degli account Twitter sono falsi (ed Elon Musk dice che sono più di così), e nessuno nemmeno alza un sopracciglio?
E perché non è reato il consentire a qualcuno di fingere di essere qualcun altro in un social?
Evidentemente la risposta, forse superficiale, è che è troppo difficile verificare in modo serio, in remoto, l'identità di una persona che non puoi vedere e che necessariamente deve poter essere profilata automaticamente.
Però facciamo qualcosa di sicuramente più efficace ad esempio nel rilascio dei certificati SSL (quelli che servono per certificare l'identità di un sito), per non parlare dei meccanismi come lo SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale). E se lo può fare la Pubblica Amministrazione, allora lo possono fare pure i social.
Quindi perché non dire che i social, se non devono imporre un' identificazione certa della persona, almeno possono consigliarla e soprattutto possono evidenziare che una certa identità non è in realtà certificata?
Facebook e Twitter potrebbero ad esempio mettere una barra verde da qualche parte se l'identità è certa, e rossa se non lo è.
E i genitori potrebbero ad esempio bloccare ai figli ogni comunicazione con identità non certe, o almeno educarli in questo senso.
Certo, non sarebbe perfetto. Ma almeno staremmo facendo qualcosa, perché a noi pare che non si faccia assolutamente nulla. Continuiamo a dire che bisogna essere cauti, che non si devono accettare caramelle (virtuali) da estranei (virtuali), che non si devono seguire i link nelle mail, ecc. Insomma, continuiamo a scaricare la responsabilità sull'utente.
Ma non potremmo invece mettere un po' più di pressione su quelli che di fatto sono gli abilitatori di certi comportamenti? A partire dai social, con cui si guadagnano un sacco di soldi, e che noi pensiamo sarebbe il caso di responsabilizzare un poco di più.
Dicono che le ultime generazioni, quelle nate con i social, li usino quasi come l'unico mezzo per comunicare con i coetanei. Così mettiamo nelle mani di questi media un potere enorme, che aumenta ogni giorno. È assolutamente necessario regolamentarli e responsabilizzarli, prima che sia troppo tardi e che finiscano nelle mani delle persone sbagliate (sempre che non sia già troppo tardi).
E noi, utenti comuni, genitori, nonni, figli o amici: possiamo fare qualcosa?
Probabilmente serve poco, ma possiamo parlarne. Chissà mai che un giorno un qualche "influencer" si renda utile e influisca…