Provate a immaginare, un quotidiano importante, nazionale o internazionale, dove l'editore si limita a stampare la sola pubblicità. Il resto sono pagine bianche, che i lettori riempiono di quello che vogliono, senza freni, inibizioni o censura. E senza dover firmare gli articoli! L'editore non fa nulla, si limita a fornire la carta (ma non la penna) e a incassare dalla pubblicità.
Pazzesco vero? Impossibile!
Come si potrebbe assicurare la veridicità di ciò che si pubblica? Come evitare che si raccontino invenzioni totali o parziali, che si condizioni il pubblico facendo terrorismo e inventando crisi inesistenti e soluzioni che non risolvono, perché non c'è nulla da risolvere? (Gigi, la prossima volta che hai mal di testa, prova a tagliartela via. Vedrai che ti passa).
O è esattamente quello che succede oggi?
All'inizio dei "social" (che di sociale ci pare abbiano poco) la grande novità era esattamente questa. I consumatori che oltre a consumare (pubblicità e contenuti) forniscono i contenuti. Se la cantano e se la suonano, sperando nel famoso quarto d'ora di notorietà.
E gli editori dovevano solo pensare a una piattaforma, tipo filmini, incontri, "amicizie", fotografie. E scrivere il software e lanciare l'idea. Se la cosa avesse avuto successo da quel punto in poi si sarebbe trattato solo di mettersi comodi in poltrona a godere degli introiti. Stando ben attenti a schivare le responsabilità e a non fare arrabbiare il consumatore/fornitore di contenuti.
E qui casca l'asino.
Perché dietro alla scusa di non ergersi a censore, l'editore è ben contento di consentire che si pubblichi qualunque cosa (basta che se ne parli, non importa se bene o male), e anzi forse è più contento se i contenuti sono i peggiori possibili. Per non parlare del fatto che poi quello stesso editore, come effetto collaterale dell'attività, raccoglie informazioni sul consumatore/creatore di contenuti, che rivende come se fosse roba sua. Ha ben ragione la relazione del parlamento inglese che definisce "digital gangsters" il più importante dei social networks.
E tutto questo come si collega a Microsys e all'ing. Kagone?
Beh, il fatto è che anche noi abbiamo la nostra piccola presenza in uno dei network, LinkedIn.
E capita che al mondo di Microsys ce ne siano tante. Quasi tutte nate dopo di noi, ma non è questo il punto.
Il problema è che su LinkedIn l'utente che si profila può tra le altre cose dichiarare per quale azienda lavora. E nel nostro caso è facile che sbagli visto che le Microsys sono tante. Ma l'azienda non ha la facoltà di controllare e confermare. Il risultato è che Microsys ha avuto un direttore generale in Burkina Faso, l'ing. Kagone, molti dipendenti in India, cerca personale per la propria sede di Edimburgo, e su LinkedIn ha avuto un numero di dipendenti appena un poco esagerato. Nessuna di queste cose è mai stata vera.
E il bello è che mettere le cose a posto non è facile, perché l'editore non aiuta, anzi fa melina. Non c'è modo di correggere autonomamente l'errore, bisogna, col cappello in mano, chiedere e forse si otterrà, sempre che questo non sia lesivo dei diritti di non si sa chi…